Cosa ci insegna la Flotilla

La Global Sumud Flotilla, missione civile internazionale varata nell’estate del 2025 con l’obiettivo dichiarato di rompere il blocco navale israeliano su Gaza e consegnare aiuti umanitari, è ormai diventata un simbolo — non soltanto geopolitico, ma esistenziale — del conflitto tra urgenza etica collettiva e strutture istituzionali

Questa “flotta di speranza”, che coinvolge decine di imbarcazioni, centinaia di attivisti da decine di paesi e un sistema di monitoraggio in tempo reale delle rotte, si trova oggi a navigare in uno spazio carico di tensione simbolica.  Nei fatti, il convoglio ha superato la “Orange Line”, una zona ad alto rischio situata a circa 150 miglia nautiche dalla costa di Gaza, dove le autorità militari israeliane si apprestano a intervenire. 

Ma ciò che rende la flotilla un caso interessante per la riflessione sul nostro tempo non è solo il “cosa” (aiuti, imbarcazioni, trattative), bensì il “come” e il “perché”: essa rappresenta un’espressione di disobbedienza civile organizzata, che emerge quando le istituzioni non riescono — o non vogliono — rispondere con tempestività e concretezza ai bisogni percepiti come urgenti da una collettività o da una coscienza comune.

Quando la coscienza precede le istituzioni

Nella storia, tante volte movimenti sociali e civili hanno assunto la forma della disobbedienza per reclamare risposte che le istituzioni non fornivano: i diritti civili, l’abolizione dell’apartheid, le marce pacifiche. Ciò che cambia, oggi, è la dimensione globale, digitale e visibile in tempo reale. Nel caso della flotilla:

  • Gli attivisti non chiedono solo passività: vogliono rompere fisicamente il blocco navale.
  • Lo fanno con modalità dichiarate non violente, ma con la consapevolezza che l’azione potenzialmente provoca uno scontro diretto.
  • Il gesto diventa simbolico: “non accettiamo che lascino morire l’umanità per burocrazia”.

È una ribellione che nasce da un angolo piccolo (le imbarcazioni, le rotte, le persone) ma che rivendica il diritto collettivo a essere ascoltato e a intervenire, anche quando le piazze o le elezioni sembrano insufficienti.

Questa tensione — tra spinta etica e ostacolo istituzionale — è ciò che si può definire il “paradosso della flotilla”: da un lato un’intenzione di valore (solidarietà, protezione, vita), dall’altro una barriera di regole, automatismi, priorità politiche e strategiche che rallentano, ostacolano o neutralizzano l’azione.


I “responsabili” che frenano il cambiamento — e che hanno un’eco nel clima

Se guardiamo al fenomeno con occhio comparativo, la stessa dinamica si ripresenta con forza nelle sfide ambientali e climatiche. Anche lì, abbiamo:

  • Urgenza planetaria: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, desertificazione, eventi meteorologici estremi.
  • Istituzioni incagliate: governi, burocrazie, meccanismi legislativi che faticano a produrre misure sufficienti e nei tempi richiesti, usando lungimiranza e capacità di visione a medio-lungo termine.

Nel dibattito accademico sul cambiamento climatico, uno dei termini centrali è “institutional inertia” (inerzia istituzionale) — l’idea che le strutture esistenti tendano a resistere al cambiamento, sia per inerzia storica, sia per costi, legittimità, resistenza dei gruppi di potere. 

In uno studio, ad esempio, si identificano cinque meccanismi che generano questa inerzia: costi, incertezza, dipendenza da percorsi già tracciati (path dependence), potere e legittimità.  Quando le istituzioni sono percepite come poco legittime o poco reattive, la resistenza al cambiamento si rafforza. 

Un altro contributo parla di “limiti dell’adattamento” nelle politiche climatiche: quando le istituzioni non riescono a far evolvere i loro assetti, le società sperimentano disagi sistemici che fanno esplodere conflitti locali o crisi forti. 

Questa analogia non è forzata: quando le popolazioni percepiscono che la crisi ambientale non è gestita con la velocità necessaria, alcune risposte emergono “dal basso” — progetti cittadini di resilienza, movimenti per il consumo sostenibile, boicottaggi, manifestazioni. In certi casi, persino forme di “disobbedienza climatica” (blocchi, occupazioni, azioni dirette).

In altre parole, ciò che la flotilla sperimenta nel contesto di un conflitto geopolitico è una forma-specchio di ciò che accade, ogni giorno, nel contesto dell’ecosistema Terra: le tensioni accumulano, la coscienza sociale aumenta il carico di insoddisfazione, e a un certo punto viene chiesto alle regole — e alle istituzioni — di subire una frattura.


Cronaca di un paradosso in azione

Mettiamo qualche dato, qualche episodio recente per radicare la metafora nella realtà:

  • La flotilla è composta da decine di imbarcazioni, provenienti da oltre 44 paesi, con decine di migliaia di registrazioni di sostegno e partecipazione attiva. 
  • La missione italiana parte da Siracusa/Genova con 120 persone e circa 45 tonnellate di aiuti
  • Il sistema di tracciamento live della flotilla è stato realizzato in collaborazione con Forensic Architecture, per documentare ogni rotta, ogni rallentamento, ogni eventuale incidente. 
  • Una delle imbarcazioni principali, il Family, ha dovuto abbandonare la missione per un grave problema al motore. Alcuni media riportano sospetti di sabotaggio, altri parlano di usura tecnica legata all’età dell’imbarcazione. 
  • La flotilla ha già subito attacchi con droni, esplosioni (senza vittime note finora) e interferenze elettroniche segnalate da alcuni partecipanti. 
  • In risposta, Italia e Spagna hanno mobilitato navi navali in prossimità della missione, in funzione di scorta umanitaria, anche se dichiarano che non intendono spalleggiare politicamente l’operazione. 

Tutto ciò mostra quanto la realtà materiale (navi che si guastano, rotte che si tracciano, minacce che si susseguono) si intrecci con la dimensione simbolica: non basta il gesto idealista se poi l’azione si arena per ragioni tecniche, finanziarie o politiche. È un paradosso reale: la volontà è alta, la macchina è fragile, la barriera è vasta.


Oltre il caso: che cosa ci insegna questo paradosso?

  1. La coscienza non può attendere Quando la collettività percepisce un’urgenza — che sia umanitaria, climatica, sociale — essa non può sempre aspettare le decisioni complesse degli apparati statali. La disobbedienza diventa risposta, simbolo e strumento.
  2. L’innovazione culturale è tanto urgente quanto quella tecnica Serve un cambiamento di paradigma: non basta progettare navi elettriche, sistemi anti-smog, tecnologie climate-friendly. Bisogna costruire forme di governance che non si blocchino sull’inerzia del sistema, che sappiano convivere con il dissenso, che riconoscano un ruolo attivo alla comunità.
  3. Il conflitto istituzionale è una ferita nella psiche collettiva Quando le istituzioni non rispondono, la fiducia si disgrega. Le persone iniziano a mettere in discussione non solo le decisioni, ma l’origine legittima dell’autorità. È un cedimento psicologico di cui le società possono soffrire profondamente.
  4. L’escalation simbolica è inevitabile La flotilla è un evento concreto, ma diventa simbolo: di resistenza, di vulnerabilità, di conflitto tra ciò che è urgente e ciò che è consentito. E simili simboli possono riverberarsi, evocare altre resistenze, ridefinire l’immaginario collettivo.

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