Salva la papera

Nel panorama della moda circolare e sostenibile emergono esempi concreti che smentiscono lo scetticismo sul cosiddetto greenwashing. Invece di usare la sostenibilità solo come facciata pubblicitaria, alcuni marchi dimostrano che i principi etici possono tradursi in crescita economica reale. Save the Duck – azienda italiana specializzata in capispalla animal-free – ne è un caso emblematico. Prima di esaminare la sua storia, vale la pena ricordare che altri pionieri globali hanno tracciato la strada: Patagonia, ad esempio, ha visto il proprio fatturato superare 1,5 miliardi di dollari nel 2022, a riprova di come valori ambientali e successo commerciale possano coesistere. Il fondatore di Patagonia, Yvon Chouinard, ha più volte sottolineato che “fare la cosa giusta per il pianeta può essere redditizio”, avvertendo che i consumatori ormai riconoscono il greenwashing e premiano invece le aziende veramente impegnate. Anche nel lusso, figure come Stella McCartney hanno adottato un approccio analogo: la stilista fu tra le prime nel settore a pubblicare un Environmental Profit & Loss, calcolando l’impatto ambientale della propria azienda e dimostrando che trasparenza e innovazione sostenibile possono andare di pari passo con la creatività. Su questa scia internazionale, Save the Duck si pone come esempio italiano di come la circolarità possa essere il motore di un business globale vincente, e non una semplice operazione di marketing “verde”.

Dalla mission etica al successo globale

Il marchio Save the Duck nasce nel 2012 con una missione chiara già nel nome: “salvare l’anatra”, cioè evitare l’uso di piume d’oca nei piumini. Fondato da Nicolas Bargi, imprenditore cresciuto in una famiglia del settore tessile, il brand ha da subito scelto di andare controcorrente. In un’intervista Bargi ha ricordato le difficoltà iniziali: “Andavo in una direzione opposta rispetto a quella in cui andavano gli altri… però pensavo che ci fosse una percentuale di persone che la pensavano come me e alla fine ho creato un prodotto alternativo”. Il prodotto in questione erano piumini 100% animal-free, realizzati con l’imbottitura sintetica Plumtech al posto della piuma d’oca. Questa scelta etica – evitare materiali di origine animale – è stata accompagnata da un intenso lavoro di ricerca per garantire performance tecniche (calore, leggerezza, traspirabilità) comparabili ai capi tradizionali, così da non chiedere compromessi al consumatore.

L’approccio di Save the Duck non si limita al benessere animale, ma abbraccia una visione più ampia di sostenibilità ambientale e sociale. Fin dal 2019 l’azienda si è formalmente impegnata su questi fronti diventando sia Società Benefit (in Italia, forma giuridica che vincola allo scopo di avere impatto positivo su società e ambiente) , sia B Corp certificata – prima impresa italiana della moda ad ottenere questa certificazione rigorosa. Queste scelte testimoniano una volontà di trasparenza e di accountability: ogni anno Save the Duck pubblica una Relazione d’Impatto, integrata al bilancio di sostenibilità, rendicontando i benefici sociali e ambientali generati e fissando obiettivi futuri. In altre parole, la sostenibilità per Save the Duck non è uno slogan, ma parte integrante dello statuto aziendale e della rendicontazione annuale.

Dal punto di vista commerciale, la strategia “etica” di Save the Duck ha premiato l’azienda con una crescita notevole, sfatando l’idea che occorra sacrificare i profitti per seguire principi sostenibili. Al contrario, l’azienda ha registrato incrementi a doppia cifra negli ultimi anni: nel 2022 il fatturato è salito del 30% a 61 milioni di euro, e nel 2024 ha raggiunto i 72 milioni con un ulteriore +12% sull’anno precedente. Colpisce soprattutto la dimensione internazionale del successo: circa 75% delle vendite viene dall’estero, con gli Stati Uniti da soli a coprire il 20% del fatturato e mercati chiave anche in Europa (area DACH 18%) e Asia (Giappone 5%). In totale Save the Duck è presente in 42 Paesi e distribuita in oltre 2200 punti vendita multimarca nel mondo. Negli ultimi anni il brand ha aperto anche boutique monomarca nelle capitali globali (due store a Milano, uno a New York, St. Moritz, Hong Kong, ecc. ) e continua ad espandersi con nuovi flagship store previsti a Tokyo e Parigi. Questo posizionamento globale mostra come un’idea nata in Italia possa competere sulla scena internazionale facendo leva su valori condivisi da un pubblico sempre più attento. Non a caso, investitori stranieri hanno creduto nella società: nel 2022 il gruppo cosmetico L’Occitane, da sempre orientato alla sostenibilità, ha acquisito la maggioranza di Save the Duck (l’80%, lasciando a Bargi il restante 20% e la guida operativa) con l’obiettivo dichiarato di portare il brand “al successivo livello di crescita su scala globale” mantenendo la forte connotazione ESG. In prospettiva, Save the Duck punta a raddoppiare le dimensioni: il fondatore ha annunciato l’obiettivo di 200 milioni di euro di ricavi entro cinque anni, valutando perfino una futura quotazione in Borsa. Questi numeri dimostrano che la sostenibilità, se supportata da prodotti validi e strategie solide, può attirare investimenti e generare valore economico duraturo.

Circolarità e innovazione ambientale come vantaggio competitivo

Oltre all’anima cruelty-free, il caso Save the Duck è significativo perché incarna i principi di economia circolare nel settore moda, tradizionalmente noto per modelli produttivi lineari e altamente inquinanti. L’azienda ha infatti adottato un approccio cradle-to-cradle: progettare capi che non solo riducano il danno, ma portino benefici lungo l’intero ciclo di vita. In pratica ciò significa scegliere materiali riciclati o biologici, facilitare il riuso e il riciclo a fine vita, e allungare la durata dei prodotti. Save the Duck applica questi concetti in diverse iniziative concrete:

  • Materiali riciclati e design modulare: La collezione Recycled utilizza tessuti in poliestere 100% riciclato ricavato da bottiglie di plastica, con imbottiture Recycled Plumtech anch’esse ottenute da materiale riciclato. Un’altra linea, identificata dal logo azzurro, impiega filati derivati dal recupero delle reti da pesca abbandonate in mare. Parallelamente, dal 2021 l’azienda ha introdotto linee guida di eco-design per i propri stilisti, in modo da ridurre gli sprechi in fase di progettazione, prediligere tessuti durevoli e componenti facilmente riciclabili, nonché eliminare sostanze chimiche nocive. Queste scelte mirano a garantire ai capi una seconda vita invece che finire in discarica.
  • Tracciabilità e trasparenza tramite tecnologia: Save the Duck è tra i primi marchi italiani ad aver implementato un Digital Product Passport (passaporto digitale del prodotto) in collaborazione con Certilogo. Si tratta di un QR code applicato all’etichetta di ogni capo: scansionandolo, il cliente può verificare l’autenticità del prodotto e ottenere informazioni dettagliate sulla filiera – dai materiali al luogo di produzione – aumentando così la trasparenza. Ma soprattutto, il passaporto digitale consente di seguire il ciclo di vita del capo e favorire pratiche circolari: ad esempio, registrando passaggi di proprietà nel mercato second-hand o il riciclo a fine uso. Questo strumento innovativo, che promuove la fiducia e la conoscenza del prodotto, è un esempio di come la digitalizzazione possa supportare la sostenibilità.
  • Second-hand e ritiro usato: In ottica circolare, Save the Duck incoraggia i clienti a non disfarsi dei capi usati ma a reintrodurli nel ciclo. Ha attivato una partnership con l’organizzazione Humana People to People per facilitare la donazione di capi usati Save the Duck a fini benefici. Inoltre, l’azienda stessa sta sviluppando un programma pre-owned: in alcuni store e online è possibile restituire i vecchi piumini, che vengono rigenerati o riciclati. Queste iniziative di second-hand e riciclo sono parte integrante della strategia aziendale per ridurre l’impatto ambientale e allungare la vita dei prodotti. Un capo Save the Duck, essendo di alta qualità e stile senza tempo, può così passare di mano in mano, sottraendosi alla logica “usa e getta” della fast fashion.

Da notare che Save the Duck adotta un approccio graduale e trasparente verso la circolarità, evitando di dipingersi come “perfetta” ma evidenziando i progressi tappa dopo tappa. Ad esempio, Bargi spiega che attualmente convivono diverse linee di prodotto con gradi di sostenibilità differenti: accanto alla linea classica (logo arancione) che utilizza imbottitura in PET vergine, la linea con logo verde è già composta al 95% da materiali riciclati (mira a un futuro senza petrolio), e si sta lavorando a capi completamente bio-based. Questa comunicazione onesta – riconoscere che “la sostenibilità è un concetto complesso e al suo interno si trovano delle contraddizioni” – è indice di serietà, perché mette il consumatore in condizione di scegliere in base alla propria sensibilità, senza falsi proclami. Significa anche che l’azienda ha ben presente le proprie sfide aperte (ad esempio la dipendenza dalla plastica riciclata, pur preferibile al nuovo, non elimina il problema dei materiali sintetici) e investe in innovazione per migliorare continuamente. Questo atteggiamento “libera” Save the Duck dalle eventuali accuse di greenwashing: invece di proclamare una sostenibilità assoluta, rende partecipi i clienti di un percorso di miglioramento continuo, misurando e divulgando risultati concreti.

Impatto ambientale e branding sostenibile

L’impegno ambientale di Save the Duck non è solo teorico ma quantificato in risultati. Un dato simbolico spesso citato dall’azienda è il numero di oche salvate grazie all’uso di Plumtech al posto della piuma: in poco più di un decennio si stima siano oltre 29 milioni gli animali risparmiati dall’industria della spiumatura. Ma accanto alla protezione animale, il brand affronta anche la questione climatica: ha adottato un piano di riduzione della carbon footprint aziendale con l’obiettivo di diventare Net Zero al più tardi entro il 2030. Già dal 2021 comunque Save the Duck compensa il 100% delle proprie emissioni, raggiungendo la carbon neutrality immediata. Ciò significa che, pur continuando a lavorare per tagliare le emissioni alla fonte, l’azienda investe in progetti di compensazione (es. riforestazione, energie rinnovabili) per bilanciare l’impatto residuo ogni anno. In parallelo, nel 2023 Save the Duck ha avviato iniziative di water balancing, contribuendo a portare acqua potabile a comunità che ne sono prive in Paesi in via di sviluppo, per compensare l’acqua consumata nei processi produttivi. Questo indica una visione olistica della sostenibilità: non solo ridurre il male, ma anche generare un bene tangibile per la società e l’ambiente.

Dal punto di vista della comunicazione e del branding, Save the Duck ha saputo integrare sapientemente i valori ambientali nella propria identità, traendone un vantaggio competitivo. Il logo stesso – una papera arancione che fischietta sollevata, scampata alla spennatura – racconta in modo ironico e immediato la mission aziendale. Indossare un capo Save the Duck significa sposare quel messaggio. “Mi sono reso conto che gli unici loghi che resteranno sono quelli che rappresentano un messaggio in cui una persona si rispecchia”, afferma Bargi , sottolineando come il consumatore odierno – soprattutto tra i giovani – cerchi di esprimere attraverso i propri acquisti una coscienza etica. In quest’ottica Save the Duck è riuscita a creare una comunità di clienti fidelizzati non solo dal prodotto in sé, ma dai valori che esso rappresenta. Il passaparola positivo ha giocato un ruolo importante nell’espansione internazionale del marchio, così come le collaborazioni strategiche: ad esempio con Patagonia (con cui condivide la filosofia 1% for the Planet, donando l’1% del fatturato annuo a cause ambientali e sociali ) o con altre realtà sostenibili nel settore moda. Queste partnership amplificano la credibilità del brand e lo inseriscono in un network globale di imprese impact-driven.

Non sorprende dunque che Save the Duck abbia ottenuto anche importanti riconoscimenti da parte di enti terzi. L’organizzazione animalista PETA, spesso critica verso le aziende di moda, ha eletto Save the Duck Company of the Year nel 2019 per il suo impegno a rispettare e proteggere gli animali pur producendo capi alla moda. Già nel 2014 il marchio aveva vinto il Vegan Fashion Award di PETA Germania, e nel 2018 il premio di Miglior brand senza piuma. Questi premi, al di là della visibilità mediatica, segnalano come Save the Duck venga percepita come autentica nel suo impegno – un elemento chiave, dato che i clienti di questo segmento sono tipicamente molto attenti alla coerenza tra ciò che un’azienda dichiara e ciò che fa realmente.

Il modello Save the Duck come nuovo standard

L’analisi del caso Save the Duck evidenzia come la sostenibilità possa essere il cuore di un modello di business di successo, e non un orpello cosmetico. Attraverso innovazione, trasparenza e coerenza etica, questo brand italiano ha smentito i detrattori secondo cui la circolarità sarebbe solo greenwashing o un costo insostenibile. Al contrario, ha dimostrato che un’azienda purpose-driven può crescere sui mercati internazionali, attirare investimenti e costruire un marchio solido. Certo, raggiungere questo equilibrio richiede visione e perseveranza: Bargi ha dovuto anticipare i tempi, accettare margini di profitto “giusti” anziché massimizzati e organizzare la produzione in modo efficiente per mantenere prezzi accessibili. Ma il risultato è una proposta di valore unica, in cui qualità, stile e sostenibilità si rafforzano a vicenda.

In un settore come la moda, spesso criticato per il suo impatto ambientale e sociale, Save the Duck rappresenta un paradigma alternativo: un’azienda che misura e riduce il proprio impatto, reinvestendo parte dei ricavi per il bene comune, il tutto senza rinunciare alla crescita economica. Anzi, proprio quei valori di tutela ambientale e rispetto animale sono diventati il driver principale della crescita del brand, intercettando una domanda in rapida ascesa di consumo responsabile. Come afferma lo stesso Bargi, “i prodotti che durano a lungo, realizzati con un occhio all’ambiente… [dimostrano che] non è vero che i materiali puliti siano esageratamente più cari… Ci vuole la volontà di guadagnare il giusto” .

Il caso Save the Duck suggerisce che l’economia circolare non è solo eticamente auspicabile, ma può tradursi in un vantaggio competitivo reale. Un messaggio potente per l’intero settore: fare impresa “pulita” conviene, e chi sa innovare in questa direzione non solo contribuisce a un futuro più sostenibile, ma costruisce anche le basi di un successo durevole.

Fonti:

  • Business People – Save the Duck: innovazione e sostenibilità nella moda  
  • Elite Network – Save the Duck: una storia di successo sostenibile  
  • LifeGate – Intervista a Nicolas Bargi, CEO di Save the Duck  
  • Michigan Journal of Economics – Patagonia proves the success of sustainable corporations
  • McKinsey – Interview with Yvon Chouinard (Patagonia)
  • BeautyEQ – Stella McCartney impact report 2021
  • PETA – Company of the Year Award 2019 a Save the Duck
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