Google vince (ancora)

La recente decisione del giudice federale Amit Mehta, che ha respinto la richiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) di smembrare Google, è destinata a lasciare un segno profondo nel dibattito globale sul potere delle grandi multinazionali tecnologiche. La richiesta del governo americano era chiara: per riequilibrare un mercato giudicato già nel 2024 come monopolizzato, Google avrebbe dovuto cedere due dei suoi asset più preziosi, il browser Chrome e il sistema operativo Android. Ma la sentenza è andata in direzione opposta, salvaguardando il cuore del modello di business dell’azienda e limitandosi a misure più contenute.

I mercati hanno reagito immediatamente: Alphabet, la holding che controlla Google, ha registrato un +7% nelle contrattazioni after-hours, mentre Apple è salita del 3%, rassicurata dalla possibilità di continuare a ricevere miliardi di dollari per mantenere Google come motore di ricerca predefinito sugli iPhone. Anche Mozilla, sviluppatore di Firefox, ha visto confermata una fonte fondamentale di entrate derivante dagli accordi con Google. È il segno che, almeno per gli investitori, questa decisione rappresenta una vittoria piena: lo spettro di uno smembramento del colosso si è allontanato e i flussi di denaro resteranno sostanzialmente intatti.

Infografica di InvestyWise che mostra le principali fonti di ricavi di Google

Un’occasione sprecata?

Ma a ben vedere, ciò che è accaduto ha il sapore di un’occasione sprecata. Il DOJ aveva chiesto misure drastiche perché la posizione di Google è davvero senza paragoni: Chrome detiene circa il 65% del mercato globale dei browser, mentre Android domina con l’86% quello degli smartphone. Queste piattaforme non sono semplici strumenti: sono porte d’accesso alla rete, in grado di influenzare la fruizione di servizi e contenuti da parte di miliardi di persone. Proprio per questo, il governo americano aveva parlato della necessità di una “vendita forzata” di Chrome e di Android come un passo per restituire ossigeno alla concorrenza.

Il giudice Mehta, nella sua lunga sentenza di 230 pagine, ha però escluso i rimedi più radicali, sostenendo che Google non abbia utilizzato tali asset per attuare restrizioni illegali. Ha invece imposto limitazioni parziali: il divieto di accordi esclusivi con aziende come Apple o operatori mobili, l’obbligo di condividere alcune parti dell’indice di ricerca e informazioni sulle interazioni degli utenti con i concorrenti, e la possibilità di continuare a pagare partner per preinstallare i propri servizi, purché senza vincoli di esclusività.

Il nodo centrale è se queste misure saranno sufficienti a riequilibrare un mercato già consolidato. Alcuni osservatori ritengono positivo il fatto che Bing, DuckDuckGo o persino nuovi attori come OpenAI possano accedere a dati che prima erano esclusiva di Google. Ma altri sottolineano che si tratta di un passo modesto rispetto alla scala del dominio di Mountain View: la condivisione di “pezzi” di indice o di interazioni difficilmente può scalfire un vantaggio competitivo costruito negli anni grazie a infrastrutture colossali, accordi miliardari e capacità tecnologiche senza pari. È un po’ come chiedere a un ristorante stellato di condividere alcune ricette: utile, ma non sufficiente a creare veri rivali in grado di competere alla pari.

Un pericoloso precedente

C’è poi un tema politico e culturale più ampio. Questa sentenza segna un precedente che rischia di influenzare i futuri casi contro altri giganti come Meta, Amazon o la stessa Apple. Se in un caso così clamoroso, con prove di monopolio già accertate, il tribunale non ha ritenuto proporzionata una misura di smembramento, sarà difficile in futuro convincere la giustizia americana a imporre rimedi radicali. Si rischia quindi di consolidare l’idea che le big tech siano ormai troppo grandi per essere realmente limitate, e che l’unico intervento possibile sia quello di correzioni marginali che non intaccano davvero i loro modelli di profitto.

Si tratta di una dinamica che interroga anche il rapporto tra potere pubblico e potere privato. Da un lato, la politica – legittimata democraticamente – dovrebbe avere il compito di garantire mercati aperti e competitivi, nell’interesse dei cittadini e dei consumatori. Dall’altro, le multinazionali tecnologiche continuano a consolidarsi come attori globali con risorse economiche e capacità di influenza tali da poter difendere con successo le proprie posizioni anche di fronte a sfide legali epocali. La decisione di Mehta sembra dire, in fondo, che il potere politico non è riuscito a imporre la propria volontà fino in fondo, lasciando Google più forte, seppur con qualche vincolo aggiuntivo.

Sundar Pichai, CEO di Alphabet Inc. e della sua controllata Google

Cosa ci aspetta?

La domanda che resta aperta, e che merita una riflessione, è se questo compromesso sia davvero sufficiente per il futuro del mercato digitale. La condivisione di dati e la fine degli accordi esclusivi sono un passo avanti, ma basteranno a scardinare un monopolio costruito nel tempo? Oppure siamo davanti a un precedente pericoloso, che legittima ulteriormente la prassi di crescita e consolidamento delle grandi piattaforme globali, rendendo sempre più difficile immaginare un ecosistema digitale realmente plurale e competitivo?

Forse questa era l’occasione per segnare una svolta storica nella politica antitrust americana. Invece, la sensazione è che si sia perso un momento cruciale: quello in cui il potere pubblico avrebbe potuto ridefinire i confini di un’economia digitale più equa, e in cui si è scelto, consapevolmente o meno, di rafforzare il ruolo di un attore privato già dominante. Non è una resa totale, certo, ma resta il dubbio che, quando si guarda al futuro della regolamentazione dei colossi tecnologici, il tempo delle mezze misure possa rivelarsi insufficiente.

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