1 domanda = 5 gocce

Cinque gocce d’acqua per un prompt? La trasparenza (finalmente) di Google e i buchi che restano

Per la prima volta un big dell’AI pubblica numeri per‑prompt su energia, CO₂ e acqua. Ma gli studiosi avvertono: la fotografia è parziale e rischia di rassicurare troppo.


Quando Google dice che “un prompt di Gemini” consuma 0,24 Wh di elettricità, 0,03 g di CO₂e e 0,26 ml d’acqua (circa cinque gocce), è impossibile non apprezzare l’atto di trasparenza. È la prima volta che un grande provider rilascia pubblicamente metriche per‑prompt e una metodologia dettagliata su energia, emissioni e acqua per l’inferenza, non solo per il training. È un passo avanti che il settore aspettava da anni.  

Google rivendica anche miglioramenti notevoli di efficienza: in dodici mesi, –33x energia per prompt e –44x impronta di carbonio per il prompt mediano di Gemini Apps. Il paper spiega di aver misurato l’intero serving stack (acceleratori, CPU/RAM di host, macchine in idle per affidabilità, overhead di data center via PUE), e contestualmente ricorda gli sforzi su data center efficienti (PUE medio 1,09), 24/7 carbon‑free e politiche di water replenishment. Anche questo merita credito: alza l’asticella del reporting industriale.

I numeri chiave (secondo Google)

  • Energia: 0,24 Wh per prompt di testo (Gemini Apps, valore mediano).
  • CO₂e: 0,03 g per prompt (calcolata con fattori market‑based).
  • Acqua: 0,26 ml per prompt (acqua on‑site per raffreddamento data center).
  • Trend 2024→2025: -33x energia / -44x CO₂e per prompt.

Perché gli studiosi dicono “non basta”

1) L’acqua “nascosta” non è conteggiata.

Le 5 gocce considerano l’acqua usata in loco per raffreddare i server, ma escludono la parte indiretta legata alla produzione di elettricità (centrali a gas, carbone, nucleare) che a sua volta richiede grandi volumi d’acqua per generare vapore e raffreddare gli impianti. È qui che, secondo gli esperti, “sta il grosso della domanda idrica” collegata ai data center: quindi il numero di Google rischia di mostrare solo “la punta dell’iceberg”.

2) CO₂: contabilità market‑based senza la metrica location‑based.

Il paper riporta le emissioni Scope 2 con approccio market‑based (che riflette contratti e acquisti di energia “verde”), ma non fornisce anche la metrica location‑based, che considera il mix reale della rete elettrica locale dove si consuma l’energia. Secondo il GHG Protocol, la doppia rendicontazione MB/LB è la prassi richiesta per trasparenza e comparabilità; e in molti casi il valore location‑based risulta più alto.

3) Scelta del “mediano”, non della media (e poche info sulla distribuzione).

Usare il prompt mediano è difendibile per limitare gli outlier, ma se non si pubblica anche varianza/distribuzione (es. lunghezze di input/output), il quadro rischia di sottopesare i casi pesanti (prompt più lunghi o più complessi). È una delle critiche degli studiosi intervistati.

4) Campo di applicazione molto stretto.

I numeri si riferiscono al testo in Gemini Apps in un’istantanea di maggio 2025; non includono training, né (per ora) prompt multimodali come immagini o video, che hanno profili energetici diversi. Lo dice la stessa comunicazione ufficiale. Inoltre i dati non sono stati verificati da terze parti

5) L’efficienza non basta se l’uso esplode (paradosso di Jevons).

Anche se scende il costo energetico di un prompt, l’adozione di massa può far salire il consumo complessivo. L’IEA prevede che l’elettricità usata dai data center più che raddoppi entro il 2030 (AI come driver principale). Insomma: bravi a misurare, ma guardiamo anche il denominatore — la scala


Come leggere (bene) lo studio di Google

È un primo benchmark pubblico che allinea la conversazione su una base empirica e introduce una metodologia più ampia del solito per l’inferenza. Da applausi. Ma non è la parola finale: manca la tassonomia completa della water footprint (diretta + indiretta), manca la doppia rendicontazione delle emissioni Scope 2, e il perimetro riguarda solo testo in un mese specifico. Servono serie storiche, disaggregazioni (per regione, modello, tipo di workload) e verifica indipendente.


Per chi innova e investe (imprese, PA, data‑driven company): le 6 mosse pratiche

  1. Chiedete “LB+MB o solo MB?” Pretendete Scope 2 dual reporting (market‑ e location‑based) e disclosure dei fattori emissivi usati. 
  2. Acqua: tutta, non solo on‑site. Richiedete la water footprint completa (raffreddamento + acqua “embedded” nella generazione elettrica) e, se possibile, le intensità idriche per kWh su base regionale. 
  3. Dal “prompt mediano” ai profili d’uso reali. Fatevi dare distribuzioni (token in/out, latenze, batch). I worst‑case contano per capacità e rischio. 
  4. Separare training da serving e distinguere testo vs multimodale nei KPI ambientali e nelle RFP. 
  5. Siting e grid strategy. Valutate regioni a bassa intensità carbonica e stress idrico contenuto; alcuni territori stanno già introducendo regole più stringenti per grandi utenti idrici (vedi Tucson). 
  6. Ottimizzare a monte. Distillazione, quantizzazione, modelli flash/lite, caching e batching riducono costi e impatti: chiedete KPI per feature e non solo per modello.

Zoom out: perché questo dibattito conta davvero

Se l’AI diventa infrastruttura di base della produttività, i costi ambientali marginali devono essere misurati, comparabili e verificati. Il passo di Google porta luce e metodo; la critica accademica (Shaolei Ren, Alex de Vries) ricorda che trasparenza senza completezza può diventare una nuova forma di “ottimismo contabile”. La verità, come spesso accade, sta nella somma: misurare tutto il ciclo (energia, acqua diretta e indiretta), con metriche standard, su serie storiche e audit terzi. Solo così la “goccia” non nasconderà il fiume.  

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