Subentrare alla guida di un team è una di quelle situazioni che spesso vengono sottovalutate nella loro complessità. A prima vista, può sembrare un avanzamento naturale di carriera. In realtà, è un banco di prova cruciale, che mette alla prova non solo le competenze tecniche del leader, ma anche la sua intelligenza emotiva, la sua capacità di adattamento e il suo senso strategico.
L’articolo di Marlo Lyons pubblicato su Harvard Business Review (“5 Steps for Leading a Team You’ve Inherited”) fa luce su un aspetto tanto comune quanto trascurato: l’importanza di saper guidare un team che non hai formato tu. Un team con la sua storia, le sue abitudini, i suoi silenzi e le sue ferite, ma anche con i suoi punti di forza nascosti. Non si tratta solo di prendere in mano le redini: si tratta di meritarsi il diritto di guidare.
Il primo passo: guadagnarsi il rispetto, non imporre autorità
Quando erediti un team, non sei un foglio bianco, e nemmeno lo è la squadra. Le persone ti osservano, ti valutano, cercano di capire che tipo di leader sarai. Il rispetto non si pretende, si costruisce — e non attraverso decisioni drastiche o gesti di forza, ma attraverso ascolto, coerenza e presenza.
Spesso la tentazione è quella di agire subito: cambiare processi, sostituire figure chiave, marcare il territorio. Ma la vera leadership richiede pazienza. Significa prendersi il tempo per osservare, per parlare con tutti — uno per uno — e capire cosa funziona e cosa no. Significa dimostrare che si è lì non per cancellare il passato, ma per costruire un futuro migliore insieme.
La sindrome del “non sei come il vecchio capo”
Una delle trappole più insidiose è il confronto implicito (o esplicito) con chi c’era prima. Che si tratti di un leader molto amato o di uno problematico, le aspettative saranno comunque cariche di storia. Erediti non solo un team, ma anche la memoria di chi lo ha guidato prima di te. Alcuni potrebbero accoglierti con scetticismo, altri con ostilità velata, altri ancora con una speranza mista a diffidenza.
In questi casi è utile riconoscere la figura precedente senza entrarci in competizione. Un buon modo per farlo è ringraziare per il lavoro fatto e aprire una nuova fase, chiarendo in modo trasparente visione e priorità.
Leadership condivisa: una leva strategica
Nel costruire il tuo spazio di leadership, può essere utile adottare una logica di collaborazione distribuita. Il concetto di shared leadership, sempre più diffuso nelle organizzazioni agili e innovative, suggerisce che un team funziona meglio quando le competenze decisionali e le responsabilità sono distribuite. Delegare non è perdere il controllo, ma moltiplicare l’impatto.
Favorire la partecipazione attiva, valorizzare il know-how interno, creare momenti di confronto e co-costruzione: tutto questo rafforza l’engagement e riduce le resistenze. Il team non si sentirà “diretto”, ma guidato.
Piccole vittorie, grande fiducia
Uno dei consigli più efficaci è quello di cercare delle “quick wins”, piccoli successi iniziali che possano dare al team fiducia nella nuova leadership. Non devono essere rivoluzioni, ma miglioramenti visibili e condivisi: una procedura semplificata, un obiettivo raggiunto, un problema risolto.
Queste vittorie servono da ancore emotive, creano slancio e dimostrano che il cambiamento è possibile, concreto e vantaggioso.
Un caso reale: l’arte di subentrare senza invadere
Un esempio illuminante arriva dal mondo dello spettacolo: Ryan Seacrest, subentrato alla conduzione di “Wheel of Fortune” dopo il leggendario Pat Sajak, ha scelto un approccio umile e rispettoso. Ha studiato il suo predecessore, ne ha onorato lo stile, ma ha anche introdotto gradualmente il proprio tocco personale. Non ha cercato di sostituirlo, ma di evolvere la sua eredità.
Allo stesso modo, molti manager e leader nelle aziende oggi si trovano a entrare in team con una lunga storia e una forte identità. Il rischio non è solo quello di “non essere accettati”, ma di non riuscire a far emergere il proprio valore senza alienare ciò che c’è già.
La formula? Visione, empatia e ascolto
Guidare un team ereditato non è un esercizio di autorità, ma di intelligenza relazionale. Servono visione strategica, capacità di comunicare, ma anche empatia, umiltà e coraggio. Bisogna saper ascoltare, ma anche prendere decisioni; servono fermezza e flessibilità, insieme.
E soprattutto, serve tempo. Per conquistare la fiducia, per leggere tra le righe, per costruire una cultura nuova e condivisa.