Nel 2024, il panorama economico italiano ha evidenziato una marcata dicotomia tra la crisi delle piccole e medie imprese (PMI) e la robusta performance del settore bancario, riflettendo un sistema economico squilibrato. Da una parte si assiste ad un progressivo deteriorarsi dell’operatività delle persone giuridiche impegnate nelle declinazioni dell’economia reale, dall’altra è palpabile una crescita quasi incessante dei player appartenenti al mondo finanziario, come gli istituti bancari e assicurativi. Un buon principio di coesistenza settoriale prevede che i secondi siano al servizio dei primi, operando per sostenere imprese, persone e realtà produttive, ma negli ultimi decenni si è assistito ad un cambio di rotta, che ha inesorabilmente mutato i rapporti tra questi player, dando vita ad un panorama sempre più disgregato e paradossale. Ma quali sono le cause di questo processo?
Aumento dei Fallimenti e Chiusure di Negozi
Il 2024 si sta rivelando un anno critico per il tessuto imprenditoriale italiano. Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio Procedure e Liquidazioni di Cerved, si è registrato un significativo aumento del 17,2% nei fallimenti aziendali rispetto all’anno precedente. In termini assoluti, i casi sono passati da 7.848 nel 2023 a ben 9.194 nel 2024, evidenziando una tendenza preoccupante che mette sotto pressione la resilienza del sistema economico nazionale.
Il fenomeno si concentra in particolare nel Nord-Ovest del Paese, che da solo assorbe circa il 30% delle procedure, con la Lombardia al primo posto per numero di aziende coinvolte. Questa regione, fulcro industriale e finanziario d’Italia, si conferma anche come quella più colpita dalle tensioni economiche e strutturali che stanno investendo l’intero comparto produttivo.
Ad essere travolte da questa ondata di chiusure sono soprattutto le società di capitali, che rappresentano l’82% dei fallimenti registrati. Questo dato riflette una vulnerabilità crescente anche tra le imprese strutturate, tradizionalmente più solide rispetto ad altre forme societarie. La crisi, insomma, non risparmia nessuno, colpendo in modo trasversale vari segmenti del mercato.
I settori più penalizzati risultano essere quelli dei servizi, che da soli contano per il 35% del totale, seguiti da comparti chiave come le costruzioni e l’industria manifatturiera. In particolare, si osservano aumenti vertiginosi nei fallimenti nelle costruzioni (+25,7%) e nell’industria (+21,2%), dove alcuni sotto-settori registrano vere e proprie impennate: il comparto dei metalli segna un impressionante +48,4%, mentre il cosiddetto sistema moda — comprendente tessile, abbigliamento e calzature — registra un incremento del 41,1%.
Dietro a questi numeri si celano fragilità strutturali e congiunturali. L’aumento del costo del denaro, la difficoltà di accesso al credito e l’inflazione dei costi energetici e delle materie prime sono tutti fattori che hanno contribuito a rendere insostenibile l’attività per molte imprese, specialmente quelle più giovani o meno capitalizzate.
Anche il quadro che emerge dalle rilevazioni di Cerved conferma un deterioramento preoccupante della tenuta economica delle imprese italiane, e l’urgenza di politiche di supporto mirate a rafforzare la competitività, la liquidità e la capacità di adattamento del sistema produttivo nazionale.
Sfide per le PMI: Tasse, Costi Energetici e Competizione
Le PMI italiane affrontano un carico fiscale elevato, con un tasso totale di tasse e contributi stimato intorno al 50-60% dei profitti, secondo analisi come quelle del World Bank Doing Business. Questo include l’IRES al 24% e l’IRAP intorno al 3,9%, oltre a contributi previdenziali. Per le microimprese, il regime forfettario offre tassi ridotti (15% o 5% per startup), ma non copre tutte le PMI, lasciando molte di queste esposte ad una pressione fiscale pesante.
I costi energetici rappresentano un altro ostacolo. L’Italia ha prezzi dell’elettricità tra i più alti d’Europa, con una media di 117 euro per megawatt-ora nel settembre 2024, aggravati dalla dipendenza dai combustibili fossili (55% nel 2023, contro una media europea del 41%). Questo impatto è particolarmente gravoso per le PMI, che spesso non possono assorbire tali costi come le grandi multinazionali.
La competizione con le multinazionali è ulteriormente complicata dalla loro capacità di pianificazione fiscale. Ad esempio, Google ha pagato 11,5 milioni di euro di web tax nel 2020 su ricavi di 505,8 milioni, con un tasso effettivo del 2,27%, grazie a strutture che spostano profitti in giurisdizioni a bassa tassazione. Simili strategie sono comuni in moltissimi casi, creando un divario competitivo, con multinazionali che pagano fino a 120 volte meno in tasse e contributi rispetto alle PMI. La situazione assume toni quasi grotteschi, anche considerata l’enorme differenza di capacità operativa tra le piccole/medie imprese e i colossi transnazionali.
Profitti Bancari e Contrasto con le Imprese
Nel 2023, le banche italiane hanno registrato profitti record, superando i 40 miliardi di euro, con un aumento del 70% rispetto ai 25 miliardi del 2022. Questo boom è stato principalmente alimentato dall’aumento dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale Europea, che ha incrementato il margine di interesse delle banche, ovvero la differenza tra gli interessi incassati sui prestiti e quelli pagati sui depositi.
In particolare, le sei principali banche italiane (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mediobanca, Banco BPM, BPER e MPS) hanno visto aumentare i loro profitti del 60% nei primi sei mesi del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un incremento pari a 11 miliardi di euro.
Tuttavia, questo successo del settore bancario contrasta con la situazione delle piccole e medie imprese (PMI) italiane, che nel 2024 hanno affrontato un aumento significativo dei fallimenti e delle liquidazioni.
Da supporter a speculatori: la decadenza etica del settore bancario
Nel corso degli ultimi decenni, il ruolo delle banche è profondamente mutato, contribuendo all’attuale squilibrio tra settore finanziario e economia reale. In passato, le banche erano attori chiave dello sviluppo produttivo: svolgevano una funzione di intermediazione virtuosa, canalizzando il risparmio verso l’economia reale, sostenendo le imprese nei cicli di investimento, innovazione e crescita. In particolare, per le PMI — che costituiscono l’ossatura del tessuto imprenditoriale italiano — il credito bancario rappresentava spesso l’unica vera fonte di finanziamento. Le relazioni tra imprenditore e direttore di filiale erano personali, costruite sulla fiducia, e il credito veniva erogato in base a una valutazione concreta dei progetti e delle potenzialità aziendali.
Con l’avvento della deregolamentazione finanziaria globale, l’ingresso massiccio di logiche di mercato e la crescente importanza della finanza speculativa, questo modello è stato progressivamente smantellato. Le banche hanno cominciato a spostare l’asse del proprio business: da istituzioni al servizio dell’economia produttiva a operatori sempre più orientati al rendimento a breve termine, concentrati su operazioni finanziarie ad alto margine e basso rischio. Il credito alle imprese — in particolare a quelle piccole, meno strutturate e più esposte alla volatilità — è diventato residuale rispetto ad attività più remunerative come trading finanziario, gestione patrimoniale, derivati e speculazioni di borsa.
L’aumento dei tassi d’interesse da parte della BCE ha accentuato questa tendenza. Le banche hanno beneficiato enormemente del cosiddetto margine di interesse: incassano interessi sempre più elevati sui mutui e prestiti, mentre remunerano pochissimo i depositi dei risparmiatori. Questo meccanismo, pur perfettamente legale, ha generato un effetto di “disgregazione sistemica” che pesa in modo particolare su famiglie e PMI. Le imprese, già provate da inflazione, rincari energetici e normative stringenti, si ritrovano a dover fronteggiare condizioni di credito sempre più onerose e selettive, mentre le banche capitalizzano su questa fragilità.
Al contempo, il processo di concentrazione bancaria — che ha ridotto drasticamente il numero di istituti presenti sul territorio — ha allontanato le banche dai territori e dalle realtà produttive locali. La chiusura degli sportelli, la riduzione del personale e la centralizzazione delle decisioni hanno cancellato quel legame fiduciario che un tempo legava banca e impresa. Il risultato è un sistema dove il settore finanziario prospera grazie a meccanismi autoreferenziali e speculativi, mentre l’economia reale, fatta di lavoro, produzione e innovazione, viene lasciata in balia del mercato.Questo squilibrio, sempre più evidente, alimenta un paradosso strutturale: le imprese produttive, che generano occupazione e valore reale, arrancano sotto il peso della burocrazia e della stretta creditizia, mentre le banche, che dovrebbero sostenerle, accumulano profitti record speculando proprio sulla fragilità del sistema. In tale contesto, ripensare il ruolo delle banche diventa una priorità non solo economica, ma anche etica e politica.