L’obsolescenza programmata rappresenta una strategia industriale tanto subdola quanto diffusa, che continua a influenzare profondamente il mercato contemporaneo, soprattutto nel settore tecnologico e dei beni di largo consumo. L’idea alla base è semplice, ma dirompente nelle sue implicazioni: progettare deliberatamente prodotti destinati a durare poco, così da costringere i consumatori a sostituirli regolarmente. Non è un concetto nuovo – uno degli esempi più noti è il Cartello Phoebus, una coalizione tra i principali produttori di lampadine negli anni ’20 che fissò la durata standard delle lampadine a 1.000 ore, abbassando intenzionalmente la soglia di longevità per aumentare la frequenza di riacquisto.
Nel tempo, la pratica si è raffinata. Oggi l’obsolescenza si manifesta in moltissime forme: materiali che si deteriorano in fretta, componenti incollati o sigillati che rendono impossibile la riparazione, aggiornamenti software che rallentano volutamente i dispositivi più vecchi, e interfacce che diventano obsolete con il mutare delle tendenze di design. In molti casi, la percezione di “vecchio” è costruita: un telefono di appena due anni può essere tecnicamente ancora performante, ma viene percepito come superato e inefficiente in un mercato che si reinventa di continuo.
Questa dinamica si lega a doppio filo con un altro nodo cruciale del capitalismo contemporaneo: la difficoltà di scalare per le aziende di prodotto. A differenza delle imprese che operano nel mondo del software o dei servizi digitali – dove la scalabilità è spesso questione di replicare un codice a costi marginali vicini allo zero – chi lavora con oggetti fisici affronta barriere d’ingresso elevate e capitali ingenti da investire. Un esempio emblematico è quello di Jeff Bezos, che ha costruito Amazon investendo per anni nella crescita anziché nel profitto immediato, consapevole che solo una proiezione globale avrebbe giustificato il modello economico. Ma non tutti hanno accesso a quei livelli di capitale o quella pazienza da parte degli investitori.
In questo scenario si è creato un mercato schizofrenico, scollegato dal reale. L’innovazione si è trasformata in un rituale di consumo più che in un vero progresso tecnologico: le intelligenze artificiali diventano obsolete nel giro di pochi mesi, le novità si rincorrono senza radicarsi, e la corsa al nuovo lascia dietro di sé scie di rifiuti elettronici, prodotti difficilmente riparabili o riciclabili, e risorse dissipate con leggerezza. È un cane che si morde la coda: i capitali sono sempre più difficili da raccogliere per le aziende di prodotto, che rispondono con scorciatoie produttive; i consumatori, a loro volta, perdono fiducia nella durata delle cose, acquistano sempre meno per convinzione e sempre più per necessità indotta.
Il risultato è un ecosistema economico precario, fatto di beni dalla vita effimera e aziende che inseguono bolle di valore sganciate dalla sostanza del prodotto. L’evanescenza dell’oggetto fisico, inteso come bene durevole, riflette una visione miope del futuro: si continua a produrre per il breve termine, sacrificando la qualità, la sostenibilità e spesso anche l’etica industriale.
Ma a dispetto di questa tendenza dominante, qualcosa si muove nella sensibilità collettiva. Sempre più consumatori cominciano a interrogarsi sulla provenienza, sulla durata e sulla riparabilità di ciò che acquistano. E le imprese più lungimiranti – poche, ma in crescita – stanno iniziando a scommettere sulla qualità come fattore distintivo, recuperando pratiche produttive più oneste e rispettose. In questo cambio di paradigma non basta però l’iniziativa dei singoli: serve una riflessione più ampia, culturale e sistemica, che rimetta al centro la durabilità, la riparabilità e il valore reale delle cose. Perché solo tornando a dare peso agli oggetti potremo ridare sostanza anche all’economia che li produce.