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Formiamo manager ma perdiamo imprese

Il capitalismo nella sua forma attuale, centrato sugli interessi degli azionisti, non funziona più. È una macchina disegnata per un mondo che non esiste più, e che oggi produce effetti collaterali devastanti: disuguaglianza crescente, emergenza climatica, instabilità sistemica. Eppure continuiamo a insegnare ai futuri leader d’impresa le stesse ricette del passato, dentro business school che sembrano ignorare il collasso imminente del sistema che pretendono di servire. In questo quadro, il problema del passaggio generazionale dell’impresa italiana assume contorni ancora più drammatici.

Il nostro Paese è composto per oltre il 90% da piccole e medie imprese, molte delle quali a conduzione familiare. È un patrimonio straordinario, costruito spesso con sacrifici enormi, visione artigianale e radicamento territoriale. Ma la staffetta generazionale si rivela, nella maggior parte dei casi, un fallimento annunciato. I giovani, anche quando ereditano le aziende, non ricevono una vera eredità culturale. Non viene trasmesso loro il significato profondo dell’impresa, la responsabilità verso la comunità, la capacità di leggere la complessità. Vengono catapultati in un mercato che insegna a competere, ma non a cooperare. A produrre profitto, ma non senso.

Un bell’articolo apparso originariamente nel Next Big Idea Club Magazine sottolinea come il problema non stia solo nei modelli economici, ma nella pedagogia che li sostiene. Continuare a insegnare che l’impresa serve a generare valore per l’azionista significa formare generazioni che considerano il lavoro come mezzo per l’accumulazione individuale, non come vocazione. Significa legittimare l’idea che fare impresa sia solo una questione tecnica, non etica o culturale. Questo approccio è incompatibile con le dinamiche familiari su cui si regge gran parte dell’economia italiana.

La frattura tra chi ha fondato un’azienda e chi dovrebbe ereditarla non è solo anagrafica, ma concettuale. È la distanza tra un’idea di impresa come progetto collettivo e una concezione ridotta a strumento personale di mobilità economica. E in questo scollamento si perde l’identità dell’impresa stessa. I figli dei fondatori vengono formati in università dove si parla di shareholder value, di efficienza, di globalizzazione, ma non di responsabilità, di territorio, di vision a lungo termine. Quando tornano in azienda, spesso non si riconoscono in ciò che dovrebbero guidare.

Il rischio è che si perda non solo la continuità, ma la sostanza dell’imprenditorialità italiana. Non basta sostituire un nome sul contratto di proprietà: serve un lavoro profondo sulla trasmissione dei valori. Serve ripensare la formazione imprenditoriale in chiave sistemica. Serve educare giovani che siano consapevoli che il capitalismo è una costruzione umana, modificabile, adattabile, e che l’impresa può avere anche uno scopo diverso dal solo profitto.

In questo senso, le business school dovrebbero smettere di essere fabbriche di manager e diventare luoghi di confronto critico. Insegnare che esistono varianti del capitalismo, che un’impresa può essere progettata per creare valore sociale, che il mercato non è una divinità da servire, ma uno strumento da governare. Offrire ai futuri imprenditori non solo competenze tecniche, ma strumenti per interrogarsi sul perché dell’impresa, non solo sul come.

Il passaggio generazionale non è solo una questione economica, ma una sfida culturale e politica. È un banco di prova per il futuro del Paese. Se non sapremo accompagnarlo con strumenti formativi adeguati e con una visione nuova del capitalismo, rischiamo di perdere non solo aziende, ma identità, coesione sociale, e fiducia nel futuro.

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