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È solo colpa nostra?

La narrazione del “consumer blaming”

Una diffusa narrazione sulla sostenibilità ambientale punta il dito contro i singoli individui, attribuendo loro la responsabilità principale di problemi globali come la crisi climatica, l’inquinamento e l’eccesso di emissioni. Dai consigli sulle “buone pratiche” quotidiane (ridurre, riusare, riciclare) alle campagne che esortano a ridurre la propria impronta di carbonio, il messaggio implicito è spesso che siano i comportamenti domestici e le scelte di consumo a determinare interamente le sorti del pianeta. Questo fenomeno è noto come consumer-blaming: la colpevolizzazione del consumatore. Secondo questa visione, se il clima cambia è perché non ricicliamo abbastanza, se gli oceani sono invasi dalla plastica è perché “buttiamo via” troppi oggetti, e così via. Si tratta di una prospettiva seducente perché offre un senso di controllo personale e spinge a una morale individuale facilmente verificabile nella quotidianità (ognuno può “fare la propria parte”); tuttavia, questa enfasi sulla responsabilità individuale spesso ignora il ruolo preponderante delle grandi aziende e di interi settori industriali.

I veri numeri: pochi grandi colpevoli, impatti enormi

Se si guardano i dati aggregati a livello globale, emerge chiaramente un enorme divario tra la responsabilità percepita del singolo cittadino medio e quella effettiva di grandi multinazionali e attori industriali. Alcuni fatti chiave aiutano a inquadrare la dimensione sistemica del problema:

  • Emissioni di gas serra: dal 1988 a oggi, solo 100 aziende (per lo più produttori di combustibili fossili) sono state la fonte di oltre il 70% delle emissioni globali di gas serra . Ancora più impressionante, appena 25 imprese (tra multinazionali e aziende statali) hanno generato da sole oltre il 50% delle emissioni industriali mondiali nello stesso periodo. In cima alla lista figurano colossi del petrolio e del gas come ExxonMobil, Shell, BP e Chevron, responsabili ciascuno di quote enormi di emissioni storicizzate. In altre parole, un relativamente piccolo gruppo di attori corporate ha contribuito alla maggioranza del riscaldamento globale, ben più di quanto abbiano fatto miliardi di persone comuni messe insieme.
  • Inquinamento da plastica: allo stesso modo, l’emergenza dei rifiuti plastici – spesso affrontata colpevolizzando i cittadini per scelte di consumo usa-e-getta – è aggravata dall’attività di pochi grandi produttori. Un’analisi recente ha rivelato che appena 20 aziende (soprattutto del settore petrolchimico) sono all’origine di oltre la metà (55%) di tutti i rifiuti di plastica monouso nel mondo. Allargando lo sguardo, le prime 100 imprese generano complessivamente oltre il 90% dei rifiuti plastici globali. Questo significa che la stragrande maggioranza di imballaggi e oggetti usa-e-getta che inquinano terre e oceani proviene da decisioni produttive di poche corporation, più che dalle “cattive abitudini” di intere popolazioni.
Distese di rifiuti plastici in discarica: un paesaggio desolante che testimonia come l’inquinamento da plastica derivi dalla produzione massiva di articoli usa-e-getta. Studi globali indicano che il 55% di tutta la plastica monouso dispersa nell’ambiente è riconducibile a sole 20 aziende produttrici di polimeri vergini, evidenziando il peso delle decisioni industriali rispetto a quelle dei singoli consumatori.
  • Disparità nelle emissioni pro capite: anche guardando alle singole persone, esiste una forte disparità – spesso trascurata – tra l’impatto ambientale dei più ricchi e quello dei cittadini comuni o poveri. Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di circa la metà delle emissioni globali, mentre la metà più povera ne produce solo una frazione esigua. In particolare, i più ricchi 1% del pianeta generano da soli il doppio delle emissioni del 50% più povero dell’umanità. Questi dati (provenienti da report come quello di Oxfam e dal Cambridge Sustainability Commission) illustrano che un ristretto gruppo di individui ad altissimo reddito – spesso azionisti o dirigenti delle stesse grandi aziende inquinanti, o grandi consumatori di beni e combustibili fossili – incide sul clima più di miliardi di persone a basso reddito messe insieme. Dunque, attribuire genericamente a tutti i consumatori la medesima colpa è fuorviante: ci sono consumatori e consumatori, con impronte ecologiche incomparabili.
  • Settori industriali altamente inquinanti: alcuni comparti economici generano da soli porzioni notevoli dell’impatto ambientale globale, ma l’attenzione mediatica tende a spostarsi sul consumo finale anziché sulla produzione. Ad esempio, l’industria della moda e dell’abbigliamento (in particolare il fast fashion) produce circa il 10% delle emissioni globali di CO₂ dell’umanità, piazzandosi tra i settori più inquinanti in assoluto (secondo solo al comparto energetico) e consumando enormi quantità di acqua. Eppure, quando si parla dell’impatto della moda spesso si biasima il consumatore “sprecone” che compra vestiti a basso costo, più che interrogarsi sul modello produttivo che inonda il mercato di capi economici e non durevoli. In questo caso, i consumatori con meno disponibilità economiche scelgono vestiti economici perché non possono permettersi alternative sostenibili, e finiscono paradossalmente per essere accusati di alimentare l’inquinamento. Il dato sistemico – il raddoppio della produzione di abiti dal 2000 al 2014, con il 60% in più di capi acquistati per persona – dipende da strategie industriali (delocalizzazione, materiali sintetici a basso costo, collezioni sempre più frequenti) molto più che dalle “manie di shopping” individuali.

Le cifre su emissioni e inquinamento indicano che le responsabilità reali sono concentrate: pochi attori economici globali e modelli produttivi insostenibili sono alla radice di gran parte del degrado ambientale. Nonostante ciò, il discorso pubblico enfatizza spesso i comportamenti del singolo individuo, delle famiglie o delle piccole realtà imprenditoriali, creando un forte scollamento tra la responsabilità percepita (generalizzata sui consumatori) e la responsabilità effettiva (riconducibile in larga misura a grandi emettitori e inquinatori).

Strategie di spostamento della responsabilità: dal Keep America Beautiful al “carbon footprint”

Come si è generato questo spostamento di attenzione dai grandi inquinatori al consumatore comune? Studi storici e inchieste giornalistiche mostrano che non è un caso, ma il risultato di precise strategie di comunicazione e lobbying messe in atto nel corso dei decenni da industrie con forti interessi economici.

Un esempio emblematico risale agli anni ‘50 e ‘60 negli Stati Uniti, in pieno boom dei beni di plastica e usa-e-getta. All’epoca, cresceva la preoccupazione pubblica per i rifiuti e molti puntavano il dito contro i produttori di imballaggi non riciclabili. In risposta, i giganti dell’imballaggio e dell’industria delle bevande (come Coca-Cola, Dixie Cup e altri) fondarono la coalizione Keep America Beautiful. Questa organizzazione lanciò campagne pubblicitarie molto efficaci, tra cui il famoso spot del “Crying Indian” nel 1971, con l’obiettivo di re-incanalare il discorso sull’inquinamento. Il messaggio? Il problema non sono le aziende che producono montagne di beni monouso, ma i cittadini che li gettano a terra. La retorica di Keep America Beautiful introdusse termini come litterbug (“zozzone”) per stigmatizzare il cittadino maleducato che sporca, e diffondeva slogan come “Every litter bit hurts” (“Ogni pezzetto di immondizia fa male”) per inculcare senso di colpa individuale. L’obiettivo dichiarato era di far credere ad ogni americano che mantenere l’ambiente pulito fosse una sua responsabilità personale, distogliendo l’attenzione dalla domanda ben più scomoda: “Da dove arrivano tutte queste bottiglie e questi rifiuti?”. La strategia fu vincente: l’opinione pubblica iniziò a condannare maggiormente i comportamenti individuali (littering) piuttosto che esigere leggi contro la produzione di imballaggi usa-e-getta. Keep America Beautiful viene oggi citata come un caso classico di greenwashing ante litteram, in cui un gruppo finanziato dalle aziende inquinanti promuove iniziative “ambientali” di facciata per evitare normative sfavorevoli e continuare il business come al solito.

Passando al contesto della crisi climatica, uno dei capolavori di spostamento della responsabilità è stato l’invenzione e la promozione del concetto di “carbon footprint” (impronta di carbonio individuale). È ormai documentato che l’idea di calcolare la propria impronta di CO₂ è stata popolarizzata dalla compagnia petrolifera BP (British Petroleum) negli anni 2000, attraverso una costosa campagna pubblicitaria orchestrata dall’agenzia Ogilvy & Mather. Nel 2004 BP lanciò un ampio spot e persino un calcolatore di carbon footprint sul proprio sito, incoraggiando le persone comuni a misurare quanto “le loro attività quotidiane – andare al lavoro, comprare cibo, viaggiare – fossero responsabili di riscaldare il pianeta”. Lo slogan finale recitava: “It’s a start” (“È un inizio”), suggerendo che la lotta al cambiamento climatico dovesse iniziare dal piccolo contributo di ognuno di noi. Nei fatti, fu un’abile mossa di PR: invece di discutere di come un colosso petrolifero come BP stava contribuendo in modo massiccio alle emissioni globali, l’attenzione fu dirottata sul comportamento individuale del consumatore. La finalità era chiara – come emerso da varie analisi –: spostare la colpa del cambiamento climatico dalle spalle delle aziende petrolifere a quelle dei singoli cittadini . Da allora, il termine “carbon footprint” è entrato nel lessico comune del discorso ambientale, e istituzioni pubbliche e media hanno ampiamente adottato questo metro di valutazione personale. Persino agenzie governative autorevoli, come l’EPA statunitense, offrono strumenti online per calcolare la carbon footprint individuale. Certamente sensibilizzare i cittadini sull’impatto delle proprie scelte non è negativo di per sé; il problema è che questa enfasi ha spesso occultato la dimensione sistemica: quando un individuo scopre che il suo bilancio annuo di CO₂ è, poniamo, 10 tonnellate, rischia di perdere di vista che intere filiere industriali emettono milioni di tonnellate e che 100 aziende da sole hanno prodotto milioni di volte quella cifra. In altre parole, la lente viene puntata sul pesciolino e non sulla balena.

Un aspetto importante di queste strategie di blame-shifting è la narrazione secondo cui “sono i consumatori che comandano”. Le aziende inquinanti amano presentarsi come semplici fornitori che rispondono alla domanda: secondo questo racconto, se c’è un problema ambientale è perché la gente vuole prodotti inquinanti, quindi “il mercato” (cioè le persone) è il responsabile ultimo, non chi gestisce le fabbriche o i pozzi di petrolio. Come nota lo studioso Ben Franta, le industrie più inquinanti tendono a rendersi “invisibili” nella discussione pubblica, cercando di far credere di “non avere alcun potere di risolvere il problema” e di mettere invece “tutta l’agenzia (cioè la capacità di agire) nelle mani del consumatore”. È il classico mantra: “Se i consumatori lo richiedono, noi ci limitiamo a fornire ciò che chiedono”. Questa idea si sposa con l’ideologia di un mercato in cui il potere decisionale risiederebbe unicamente nelle scelte d’acquisto individuali, ma in realtà dimentica che sono spesso le aziende a plasmare le preferenze – tramite pubblicità martellanti, modelli di distribuzione, lobbying politico che determina quali opzioni sono accessibili o convenienti . Pensiamo ai carburanti fossili: davvero la domanda di benzina è puramente un libero “voto” dei consumatori, o c’entra forse il fatto che per decenni le alternative (trasporti pubblici capillari, energie rinnovabili) sono state ostacolate o non sufficientemente sviluppate mentre le città venivano progettate a misura di automobile? La verità è che esiste un circolo di dipendenza indotta: le compagnie petrolifere estraggono e vendono petrolio, finanziano infrastrutture e lobby per mantenerne l’uso, e i consumatori finiscono per utilizzare quel petrolio perché è l’opzione prevalente e talvolta l’unica disponibile. Addossare tutta la colpa al consumatore finale significa ignorare chi ha costruito e promosso l’intero sistema di produzione e consumo insostenibile.

Le campagne di greenwashing contemporanee continuano su questa falsariga. Molte multinazionali mettono in luce iniziative “verdi” marginali, invitando i clienti a fare scelte sostenibili, mentre il cuore del loro modello di business rimane immutato. Un caso recente e plateale è quello della compagnia petrolifera Shell, che nel 2020 ha lanciato su Twitter un sondaggio chiedendo agli utenti: “Cosa sei disposto a cambiare per contribuire a ridurre le emissioni?”. La mossa – evidentemente intesa a stimolare la conversazione sulle azioni individuali – si è ritorta contro la società con accuse immediate di gaslighting (manipolazione psicologica collettiva): attivisti, scienziati e perfino parlamentari hanno risposto indignati ricordando a Shell il proprio enorme contributo al problema climatico. La deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez ha commentato: “Sono disposta a chiedere conto a voi (Shell) per aver mentito sul cambiamento climatico per 30 anni…”, mentre l’attivista Greta Thunberg ha bollato il sondaggio come “l’ennesimo greenwashing senza vergogna”. La climatologa prof.ssa Katharine Hayhoe ha sottolineato l’ipocrisia in modo incisivo: “Cosa sono disposta a fare? A domandarvi del 2% delle emissioni globali cumulative di cui siete responsabili – un quantitativo pari a quello di un intero paese come il Canada. Quando avrete un piano concreto per ridurre quello, sarò felice di discutere di cosa faccio io per ridurre le mie personali”. Un altro scienziato ha osservato che suggerire che le azioni individuali possano “fermare” la crisi climatica è fuorviante e deresponsabilizzante verso l’industria fossile, definendo l’atteggiamento di Shell una forma di gaslighting pubblico . Questo episodio sintetizza bene il nocciolo della questione: spostare il dibattito su “cosa puoi fare tu, singolo cittadino” anziché su “cosa devono fare le grandi aziende e i governi” è spesso una strategia deliberata di chi contribuisce in modo sproporzionato al problema.
Nel frattempo, molte corporation proseguono con pratiche altamente inquinanti dietro la facciata della sostenibilità. Ad esempio, BP (la stessa creatrice della carbon footprint) negli ultimi anni ha investito milioni in pubblicità per promuovere la sua immagine green, esaltando i suoi investimenti in gas “più pulito” e energie rinnovabili. Eppure, in un’analisi del 2019, è emerso che BP destinava ancora oltre 96% del suo budget di spesa annuale a petrolio e gas, e solo briciole alle reali alternative a basse emissioni. In modo analogo, i giganti della plastica e dei beni di consumo sponsorizzano campagne sul riciclo e fanno a gara per lanciare linee di prodotti “eco-friendly”, mentre continuano a incrementare la produzione di plastica vergine monouso (come rivelato dal Plastic Waste Makers Index). Si tratta di quella che alcuni analisti chiamano performance ambientale cosmetica: focalizzarsi su piccoli miglioramenti o sul coinvolgimento attivo del consumatore virtuoso, mentre il grosso delle operazioni aziendali rimane invariato.

Un aspetto importante di queste strategie di blame-shifting è la narrazione secondo cui “sono i consumatori che comandano”. Le aziende inquinanti amano presentarsi come semplici fornitori che rispondono alla domanda di mercato: secondo questo racconto, se c’è un problema ambientale è perché la gente vuole prodotti inquinanti, quindi “il mercato” (cioè le persone) è il responsabile ultimo, non chi gestisce le fabbriche o i grandi poli produttivi.

Il divario tra responsabilità percepita e responsabilità reale

Dai punti precedenti emerge un quadro chiaro: esiste uno scarto significativo tra chi viene incolpato della crisi ecologica nei discorsi correnti e chi ne è maggiormente responsabile in termini fattuali. Questo divario si manifesta su più livelli:

  • Nella comunicazione e nei media: campagne pubbliche, articoli e messaggi sui social network spesso semplificano la soluzione della crisi ambientale in una somma di azioni individuali (dalle lampadine LED al carpooling, dalla raccolta differenziata alla rinuncia alla carne). Pur essendo tutte cose positive, vengono presentate come la risposta centrale al problema. Al contempo, riceve meno attenzione il fatto, ad esempio, che solo pochi operatori economici possono con una singola decisione influenzare le emissioni quanto milioni di individui. Ad esempio, se una multinazionale petrolifera decide di decarbonizzare il proprio portafoglio energetico, l’effetto in termini di CO₂ evitata supera di gran lunga quello di milioni di cittadini che fanno diligentemente il compostaggio domestico. Ma queste storie di grandi responsabilità faticano a trovare spazio, perché spesso i media tradizionali dipendono da investimenti pubblicitari delle stesse aziende o perché la narrativa dell’“ecologia del buon comportamento” è più facile da comunicare e meno conflittuale. Il risultato è una percezione distorta delle cause ed efficaci soluzioni: il cittadino può sentirsi in colpa per ogni sua mossa (prendere l’auto per andare al lavoro, mangiare una bistecca) e contemporaneamente impotente di fronte a problemi così vasti, mentre i veri driver dei fenomeni (le politiche energetiche, le scelte industriali, le regole di mercato) restano sullo sfondo.
  • Nel dibattito politico: molti governi e istituzioni hanno abbracciato la retorica della responsabilità individuale perché politicamente più conveniente. Chiedere ai cittadini di cambiare stile di vita costa relativamente poco ed evita di inimicarsi grandi poteri economici. In alcuni casi, iniziative pubbliche ben intenzionate finiscono per rinforzare questo frame: pensiamo alle campagne nazionali per incentivare il risparmio energetico domestico (giuste, in sé) che però non sono accompagnate da misure equivalenti per ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili da parte dei grandi produttori di energia. Il rischio è quello di spostare il peso delle azioni sui singoli (magari con qualche eco-tassa regressiva, che colpisce più duramente i meno abbienti) e di esonerare di fatto i soggetti più influenti. Il divario tra responsabilità percepita e reale si allarga quando, ad esempio, si fa sentire l’automobilista colpevole per le emissioni della sua vecchia auto diesel, ma si permettono nuove trivellazioni petrolifere o si sussidiano industrie inquinanti. In tal modo, la percezione collettiva è che “la colpa è nostra che non facciamo abbastanza”, mentre le responsabilità strutturali rimangono nascoste e intoccate.
  • Nella coscienza sociale: questo sbilanciamento influisce anche su come le persone comuni reagiscono alla crisi. Da un lato, c’è chi interiorizza eccessivamente la colpa ecologica, sentendosi in difetto per ogni azione (al punto da coniare termini come eco-ansia o shame per indicare il disagio e la vergogna legati al proprio impatto ambientale). Dall’altro lato, c’è chi – percependo l’ipocrisia del sistema – sviluppa cinismo o rassegnazione: “Perché dovrei fare la raccolta differenziata perfettamente quando le grandi aziende inquinano senza sosta?”. Entrambi questi atteggiamenti estremi sono controproducenti. La prima porta a colpevolizzazioni sterili (magari biasimando il vicino di casa perché non compra bio), la seconda porta all’inazione. Una visione più equilibrata riconosce che le scelte individuali contano, ma contano soprattutto se inserite in un contesto di cambiamento sistemico e di pressione verso i veri centri di potere economico.

In definitiva, i dati e gli studi sul consumer-blaming svelano che la responsabilità reale è molto più concentrata di quanto la narrativa dominante lasci intendere. Esiste uno sbilanciamento: il pubblico viene indotto a guardare il dito (il consumo personale) mentre la luna (la produzione e le politiche delle grandi industrie) brilla accecante ma viene tenuta ai margini della conversazione. Colmare questo divario di consapevolezza è fondamentale per affrontare efficacemente la crisi ecologica.

Un’infografica interessante, realizzata dall’utente Garbage_Warrior su Reddit, spiega la complessa rete di interdipendenza sistemica tra i vari player; un incolparsi reciproco che non permette di progredire nella risoluzione del problema ambientale.

Conclusioni: verso una responsabilità sistemica e condivisa

Rimettere a fuoco le vere responsabilità non significa affatto esonerare tutti noi, come individui, dal fare scelte sostenibili. Significa però contestualizzare il ruolo del singolo all’interno di una cornice molto più ampia. La crisi climatica e ambientale è un problema collettivo e sistemico, che richiede soluzioni su larga scala: cambiamenti nelle fonti energetiche, riconversione industriale, tutela legislativa degli ecosistemi, modelli economici circolari e così via. In questo scenario, le azioni del cittadino (dal preferire mezzi pubblici al differenziare i rifiuti, dal ridurre lo spreco alimentare al risparmiare energia) sono utili e vanno incoraggiate, ma non saranno mai sufficienti da sole. Come ha scritto efficacemente la storica Rebecca Solnit, le virtù ecologiche personali per quanto positive “non ci porteranno neanche lontanamente a quanto dobbiamo arrivare in questo decennio” – ciò che serve, oltre al cambiamento virtuoso degli stili di vita, è un’azione collettiva ad ogni livello, dal locale al globale. In altre parole, non salveremo il pianeta solo “stando a casa a fare i bravi” ; dobbiamo pretendere e realizzare cambiamenti strutturali.

Ribaltare il paradigma del consumer-blaming significa dunque ricollocare la responsabilità dove effettivamente risiede, senza per questo negare il ruolo attivo della cittadinanza. Significa, ad esempio, mettere sotto la lente le compagnie petrolifere, le aziende dell’agroindustria intensiva, i colossi della moda fast fashion, costringendoli a ridurre il loro impatto e ad adottare pratiche sostenibili, invece di limitarsi a fare campagne pubblicitarie “green” che spingono il consumatore a comprare lampadine a LED. Significa implementare normative che vincolino le imprese a risultati ambientali (emissioni nette zero, percentuali obbligatorie di materiale riciclato, bonifiche dei siti inquinati, ecc.), invece di scaricare la “scelta etica” sul consumatore al supermercato. Significa anche riconoscere le ingiustizie ambientali: chi inquina di più deve fare di più, che si tratti di nazioni ricche, di multinazionali o di super-ricchi con impronte di carbonio gigantesche. In parallelo, le persone comuni vanno messe in condizione di vivere in modo sostenibile non solo per senso del dovere, ma perché le alternative ecologiche diventano accessibili, convenienti e normali (ad esempio città ben servite dai trasporti pubblici e dalle piste ciclabili, energia rinnovabile a prezzo equo, sistemi di riuso efficaci). Solo così la sostenibilità cessa di essere un peso morale sul singolo e diventa un risultato collettivo.

Smascherare il consumer-blaming non vuol dire puntare il dito solo contro le aziende e assolvere i singoli, ma riequilibrare la narrazione: riconoscere che la crisi ambientale è soprattutto frutto di scelte produttive ed economiche sbagliate, e che risolverla richiede di intervenire su quei livelli con la massima urgenza. Il consumatore informato e attivo rimane importante – ad esempio nel fare pressione attraverso le sue scelte di acquisto e il voto politico – ma dobbiamo evitare che venga trasformato nel capro espiatorio di colpe ben più grandi. Il divario tra responsabilità percepita e responsabilità reale, alla luce dei dati, non è più accettabile: colmarlo è il primo passo per passare dalla colpevolizzazione sterile all’azione efficace per la sostenibilità. Solo chiamando alle proprie responsabilità tutti i protagonisti – cittadini, sì, ma soprattutto i grandi attori industriali e i decisori politici – potremo sperare di affrontare seriamente le sfide ambientali globali.

Fonti: Questo saggio ha raccolto dati e analisi da numerose fonti attendibili, tra cui report di istituti di ricerca, articoli di testate internazionali (The Guardian, BBC, NPR, Sky News) e contributi di esperti. Tutte le affermazioni fattuali chiave sono reperite da riferimenti bibliografici autorevoli. Le cifre sulle emissioni e i rifiuti provengono da studi globali come il Carbon Majors Report del CDP (2017) e il Plastic Waste Makers Index (2021). Approfondimenti storici e sul framing comunicativo derivano da inchieste giornalistiche (es. il caso “carbon footprint” di BP , le campagne Keep America Beautiful ) e da saggi specialistici. Il quadro conclusivo che emerge dalle fonti conferma la necessità di ripensare la narrazione dominante, passando dal consumer-blaming a una visione che chiama in causa i veri poteri che guidano – e possono risolvere – la crisi ambientale.

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