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I colossi fanno un passo indietro sul clima, ma forse c’è un lato positivo

Mentre il pianeta continua a scaldarsi e la crisi climatica bussa ormai alla porta con sempre più forza, alcune tra le più grandi aziende al mondo stanno facendo marcia indietro sugli impegni ambientali presi negli ultimi anni. È questo l’allarme lanciato da Ben Elgin in un approfondito articolo per Bloomberg Businessweek: Coca-Cola, BP, HSBC, FedEx, Walmart, PepsiCo – solo per citarne alcune – stanno ritirando o ridimensionando le loro promesse “green”.

Ma cosa sta succedendo davvero?

Dalle promesse al disimpegno

Negli ultimi decenni oltre 4.000 aziende hanno annunciato piani climatici ambiziosi: riduzione delle emissioni, transizione energetica, tagli drastici alla plastica vergine. Eppure, secondo quanto documenta Bloomberg, i risultati sono stati deludenti e molte aziende stanno ora facendo un passo indietro.

BP investe di nuovo nel petrolio, Coca-Cola ha abbassato l’asticella sul taglio della plastica, FedEx ammette di non riuscire a elettrificare la sua flotta come promesso, HSBC e altri grandi gruppi bancari smantellano le proprie roadmap ecologiche. Un disimpegno generalizzato, che va di pari passo con lo smantellamento di normative ambientali negli Stati Uniti e con l’aumento continuo delle emissioni globali.

Le buone intenzioni non bastano

Come spiega Ken Pucker, ex dirigente di Timberland e oggi docente alla Tufts University, «le aziende non salveranno il pianeta». Non lo faranno, aggiunge, perché il sistema premia il profitto a breve termine e punisce chi si muove per primo, ad esempio investendo in carburanti sostenibili o ristrutturando impianti costosi.

Il problema, secondo Elgin, non è solo l’inefficacia delle promesse volontarie, ma la sistematica opposizione da parte delle aziende a normative più stringenti. Alcune imprese finanziano gruppi industriali che fanno lobbying contro le regole sull’efficienza energetica, mentre si dichiarano sostenibili nei loro report pubblici.

Il greenwashing non è più una sorpresa. Ma cosa ne facciamo di questa consapevolezza?

Qui entra in gioco una riflessione più ampia. Come abbiamo sottolineato nel nostro precedente articolo È solo colpa nostra?, non possiamo permettere che il disimpegno delle aziende diventi l’ennesima scusa per scaricare tutta la responsabilità sui consumatori.

Il rischio è quello di cadere in una nuova spirale di consumer blaming: se le cose non migliorano, allora è colpa tua che compri la bottiglietta di plastica, colpa mia che non faccio la raccolta differenziata perfetta. Ma questo discorso non regge più. Il vero cambiamento sistemico richiede regole, impegni vincolanti e pressioni politiche su larga scala.

E allora? Che fare?

Il “lato positivo” (se così si può chiamare) di questo grande smascheramento – come suggerisce anche Elgin – è che ora abbiamo una maggiore consapevolezza: non possiamo più delegare tutto alle multinazionali o ai loro proclami di sostenibilità.

Questa disillusione potrebbe diventare una nuova miccia: un’occasione per rilanciare l’impegno dal basso, per chiedere regole chiare, per premere su aziende e istituzioni, e per far sì che la sostenibilità non sia più solo una questione di branding, ma di azione reale.

Come? Attraverso:

  • Un’opinione pubblica più attenta e meno accondiscendente al greenwashing;
  • Dipendenti aziendali che si organizzano, come fa il gruppo ClimateVoice, per chiedere coerenza dall’interno;
  • Cittadini e professionisti che partecipano al dibattito pubblico, con scelte informate e pressioni politiche.

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